Licencia Creative Commons
Esta obra está bajo una Licencia Creative Commons Atribución-NoComercial-CompartirIgual 4.0 Internacional

ARTÍCULOS

LA VIOLENCIA CONTRA LAS MUJERES COMO PRUEBA DE MASCULINIDAD. REFLEXIONES SOCIO-CRIMINOLÓGICAS

VIOLENCE AGAINST WOMEN AS A MASCULINITY TEST. SOCIO-CRIMINOLOGICAL REFLECTIONS

Cirus Rinaldi

Universidad de Palermo -Italia

Resumen: La investigación suele emplear representaciones esencialistas y estáticas de la masculinidad para abordar la violencia masculina contra la mujer. Por tanto, la masculinidad está vinculada a fenómenos presociales, categorías naturalizadas y configuraciones de identidad que se definen como peligrosas, debido a características / configuraciones biológicas, etno-raciales o de clase. Por el contrario, una criminología crítica de orientación sociológica preocupada por la relación entre masculinidad y crimen debería cuestionar las formas en que, a nivel social, la comisión de una conducta desviada o criminal se entrelaza con el logro del estatus y el poder masculinos. Releeremos así el tema de la violencia contra la mujer como un problema masculino, es decir, como algo emergente durante la producción de masculinidad, ni una cualidad inherente de varones específicos ni los efectos de la pertenencia étnica o pertenencia a una clase baja, hecha de sujetos naturalmente agresivos, violentos y criminales. Más bien, intentaremos comprender las formas en que la agresión, la violencia y la conducta criminal deben leerse a través de la lente de los procesos a través de los cuales se construye socialmente la masculinidad. Esto implica considerar las diferentes masculinidades involucradas y, a su vez, el papel de los procesos de racialización y evaluaciones por parte de los grupos que junto a sus diferentes posicionamientos de clase (media).

Palabras claves: Masculinidad; Criminologìa; Procesos de construcción social; Construcción social se masculinidad.

Abstract: Research typically employs essentialist and static representations of masculinity to deal with of male violence against women. Masculinity is thereby linked to pre-social phenomena, naturalized categories, and to identity configurations that are defined as dangerous, due to biological, ethno-racial or class characteristics/configurations. Conversely, a sociologically oriented critical criminology concerned in the relationship between masculinity and crime should interrogate the ways in which, at the social level, committing a deviant or criminal conduct is intertwined with achieving male status and power. We will thus re-read the issue of violence against women as a male problem, that is, as something emerging during the production of masculinity, neither an inherent quality of specific males nor the effects of ethnic belonging or belonging to a lower class, made up of naturally aggressive, violent, and criminal subjects. Rather, we will try to understand the ways in which aggression, violence, and criminal conduct should be read through the lens of the processes through which masculinity is socially constructed. This implies considering the different masculinities involved, and in turn, the role of processes of racialisation and evaluations by groups that alongside their different (middle-) class positionings.

Keywords: Masculinity; Criminology; doing gender; violence as doing masculinity.

Maschilità e costruzione delle condotte violente

A partire dal 1980, le riflessioni sulla maschilità elaborate dalla sociologa Raewyn Connell, superando i limiti intrinseci della teoria dei ruoli sessuali di derivazione funzionalista e, nello specifico, integrando il concetto di patriarcato e di maschilità, hanno permesso alla riflessione socio-criminologica e di sociologia della devianza di analizzare la maschilità in modo più dinamico e non come tipo statico di prassi. Le elaborazioni permisero di guardare alla maschilità in relazione a vari processi di strutturazione (tra i quali, per esempio, la razza, la classe sociale, etc.) e di considerare, in termini tipologici, l’esistenza di una serie tipologica di maschilità. Nella versione proposta da Connell vengono individuati almeno tre livelli di analisi del genere:  a) l’ordine di genere, il livello macro, ossia l’insieme dei modelli sociali generali che regolano i rapporti tra maschilità e femminilità; b) organizzazioni, istituzioni, reti e contesti specifici – che si tratti della famiglia, di una professione, di scuole, uffici, forze di polizia, etc. –  saranno caratterizzati da un regime di genere particolare: si tratta di un livello meso che, sebbene generalmente riproponga i modelli del livello macro prima indicato, può presentare istituzioni più inclini al cambiamento rispetto ad altre; c) le interazioni di vita quotidiana per mezzo delle quali facciamo il genere (West y Zimmerman, 1987) costituiscono invece le relazioni di genere, all’interno delle quali non siamo però pienamente libere e liberi di mettere in pratica il genere così come vogliamo, perché agiamo all’interno di modelli di relazioni – le strutture – che tuttavia non esisterebbero «al di fuori delle pratiche attraverso le quali gli individui e le collettività gestiscono quelle stesse relazioni» (Connell, 1996; Connell, 2006, p. 108). Connell elabora nelle analisi più recenti quattro dimensioni principali della struttura di genere che concorrono a costituire il genere in modo interdipendente sebbene rimangano distinte. Si tratta, in particolare, delle relazioni di potere (che operano attraverso l’autorità, la violenza, l’ideologia presenti nelle istituzioni, nello Stato, nella sfera domestica); delle relazioni di produzione ossia di divisione sessuale del lavoro (sia in ambito familiare che professionale), delle relazioni emotive o di catessi (le dinamiche dei rapporti all’interno della sfera intima, emozionale e affettiva: matrimonio, sessualità e rapporti di filiazione) e delle relazioni simboliche che rinviano ai significati come espressione storicamente determinata sostenuta da interessi specifici (Connell, 1996). Un’analisi siffatta permette di comprendere il genere all’interno di una prospettiva relazionale, infatti «esso non è un’espressione della biologia, né rappresenta una dicotomia immutabile della vita umana, bensì una particolare configurazione della nostra organizzazione sociale, e di tutte quelle attività e di quelle pratiche quotidiane che da essa sono governate» (Connell, 2006, p.39). In particolare, uno dei temi di maggiore interesse criminologico è la definizione che Connell offre di alcune forme ideali di maschilità (e femminilità) che non sono da intendere come «tipi caratteriologici fissi» bensì come «configurazioni di attività, generate in situazioni particolari entro una struttura di relazioni in continua trasformazione» (Connell, 2006, p.112 ss.). Tra le configurazioni che Connell ha identificato ritroviamo: a) la maschilità egemone, dominante su tutte le altre tipologie di maschilità e femminilità, riprodotta attraverso rappresentazioni, valori, prodotti culturali e mediatici, incarnata da soggetti esemplari (il divo, il leader, il campione, etc.), corrispondente allo standard ideale cui gran parte degli uomini anela ma che ben pochi riescono a incarnare; b) le maschilità subordinate esprimenti il predominio dei maschi egemoni su maschi altri (per esempio gli omosessuali) attraverso svariate forme che spesso vanno al di là delle “comuni” pratiche materiali (dalla violenza legale, alla violenza pubblica, alla discriminazione economica passando per i boicottaggi personali e l’esclusione politica e culturale); c) la maschilità complice, che intercetta il più vasto pubblico di uomini che non potendo direttamente attingere alla posizione dominante ed egemone ne traggono tuttavia dei vantaggi, partecipando dei proventi e dei ricavi derivati dal «dividendo del patriarcato» e, infine, d) la maschilità marginale, costituita dalle relazioni esistenti fra le maschilità delle classi dominanti e delle classi subordinate e fra differenti gruppi etnici, il cui ruolo è sempre concesso e autorizzato dalla maschilità egemone (Connell, 1996, pp.67-72). Le diverse espressioni di femminilità sono considerate in posizione subordinata rispetto alla maschilità egemone e, in particolare, Connell definisce con il concetto di femminilità enfatizzata quella tipologia che in qualche modo acconsente alla subordinazione e anzi si orienta verso il soddisfacimento del desiderio e degli interessi maschili. Esistono, inoltre, delle altre forme di femminilità non complici della maschilità, le femminilità resistenti, le cui esperienze solitamente sono trascurate dalla storia e, infine, altre tipologie sono definite da una combinazione strategica complessa di complicità, resistenza e cooperazione.

Una delle forme marginali di maschilità è quella che Connell chiama «maschilità di protesta» ossia una prassi collettiva che rivendica il suo diritto al potere maschile in condizioni strutturali che non offrono alcuna opportunità e risorse per il potere (Connell, ivi, 94). La maschilità di protesta è una elaborazione sociologica del concetto di «protesta virile» di derivazione psicanalitica che, come indicato in precedenza, venne utilizzato in sociologia dai funzionalisti per spiegare la violenza delle subculture maschili come forma di distanziamento e di difesa maschile dall’identificazione inconscia con il femminile. Questo concetto, in particolare, come osserveremo nei prossimi paragrafi, diventa di particolar interesse per l’analisi socio-criminologica perché intercetta tutte quelle «situazioni marginali dove la pretesa di possedere il potere, fondamentale per la maschilità egemone, è continuamente resa nulla da debolezze economiche e culturali» (Connell, ivi, p.98). Tutti quegli uomini che non hanno quel livello minimo di accesso al potere di cui dispone persino l’uomo di classe lavoratrice che abbia un’occupazione nel settore del lavoro manuale – e che dunque non sono in grado di costruire la propria maschilità attraverso il lavoro se disoccupati, non educati, mancanti di proprietà, di beni e impossibilitati a consumare – possono ritrovarsi a compensare la mancanza di vantaggi che gli spetterebbero in quanto maschi esibendo in modo spettacolare forme di aggressività ipervirilista attraverso il compimento di condotte antisociali, distruttive e criminali. Il concetto di maschilità egemone, elaborato sulla base del concetto di egemonia culturale di Gramsci, non deve essere inteso come un «tipo» o un «carattere» particolare bensì come insieme complesso di pratiche sociali varie e dinamiche che rafforzano il patriarcato e il dominio maschile sulle donne e sui maschi altri perché si fonda anche sulla legittimazione che riceve anche da parte dei subordinati. La maschilità egemone ha carattere relazionale, essa dunque non avrebbe alcun significato al di fuori del rapporto con le femminilità e le maschilità non egemoniche (Messerschmidt y Tomsen, 2012, p.174); potremmo affermare che la maschilità egemone corrisponde alla configurazione gerarchica dinamica inter-genere e intra-genere specifica che la maschilità assume in contesti e durante assi temporali specifici.

Il concetto di maschilità egemone è stato sottoposto a critiche e a revisioni che, di volta in volta, ne hanno attaccato l’uso stesso del concetto di maschilità intesa come identità discreta ed evidenziato il rischio di utilizzarlo in termini essenzialisti (Collier, 1998); altre posizioni critiche hanno evidenziato come le maschilità siano descritte generalmente facendo riferimento a una serie di caratteristiche negative (Jefferson, 2002) e, in particolare, rilevano che le maschilità di classe lavoratrice vengono raffigurate come intrinsecamente violente (Hall, 2002). Queste critiche e revisioni recenti del concetto di maschilità egemone (Connell y Messerschmidt, 2005) permettono di comprendere che gli attori sociali fanno il proprio genere in accordo con le aspettative istituzionalizzate, che esistono maschilità (e femminilità) multiple, che le maschilità sono processuali e che sono prodotte a livello contestuale, situazionale e interazionale. In rielaborazioni recenti (Messerschmdt, 2016; Messerschmidt, 2018) viene ribadita la necessità di analizzare le maschilità egemoni a livello locale (così come sono costruite nelle arene delle interazioni faccia a faccia delle famiglie, delle organizzazioni e delle comunità prossimali), a livello regionale (guardando al modo in cui viene costruito il genere al livello sociale delle culture o delle nazioni) e, infine, a livello globale (considerando le arene transnazionali dei mass media, della politica o dell’economia). La coesistenza di una serie di maschilità, il focus sulla loro costruzione contestuale ed interazionale e l’attenzione ai diversi livelli di analisi – locale, regionale e globale – hanno diretta applicazione per ciò che concerne lo studio delle istanze rivendicative sostenute dalle maschilità nelle società contemporanee, contesti sottoposti a processi trasformativi e a tensioni indotti dalle politiche neoliberiste e neoconservatrici globali che predispongono nuove modalità di cooperazione e nuove coalizioni tra i diversi gruppi di maschi esistenti, dotati di risorse materiali e simboliche differenziali.

Fare la violenza per “diventare” maschi

All’interno della riflessione sociologica sulle maschilità, la teoria del crimine come azione strutturata di James W. Messerschmidt applica, rielaborandoli, gran parte degli assunti connelliani, mostrando che fare il crimine – dunque nel caso dell’applicazione alla condotta prostitutiva maschile, compiere l’azione “deviante” (fare sesso con altri maschi definendosi maschio eterosessuale) – diventa un modo per fare la maschilità avvicinandosi il più possibile alla sua idealizzazione normativa ed esibendo aspetti e manierismi spettacolarizzati ed esagerati (Connell, 1996, p.98) per neutralizzare lo stigma potenzialmente derivante da una condotta omosessuale. La maschilità non è l’unica differenza strutturante: essa si affianca contestualmente alla dotazione diseguale di potere come la classe sociale, all’appartenenza etno-razziale, all’età, alla sessualità e le diverse forme di incorporamento che producono “corpi” diversi (Connell, ibidem).

Una delle principali implicazioni delle riflessioni di Messerschmidt è che anche i maschi facciano il proprio genere: la maschilità è qualcosa che si fa, che si produce, che si rappresenta non qualcosa di predeterminato, statico o già definito. Messerschmidt sostiene che produciamo forme diversificate di genere – e contemporaneamente di razza, di classe sociale, di configurazioni di incorporazione, etc. – attraverso pratiche specifiche che al contempo costituiscono le strutture sociali. Pertanto, un’analisi del rapporto tra maschilità e crimine deve necessariamente poter portare gli uomini all’interno della propria cornice teorica.

Fare il genere non significa sempre conformarsi alle concezioni normative della maschilità e della femminilità, ma piuttosto compiere condotte che rischiano di essere valutate in termini di genere da una serie di pubblici: sebbene siano gli individui a fare il genere, il processo rimane tuttavia di carattere interazionale e istituzionale (West y Zimmerman, 1987, pp.136-137). La maschilità è pertanto una realizzazione prodotta in situazioni sociali specifiche (Messerschmidt, 1993, p.80), così come costruiamo le nostre azioni in relazione a come gli altri le interpretano all’interno dei contesti in cui si verificano (Messerschmidt, ivi, p.79): gran parte del nostro agire sociale è finalizzato perché si presti ad una esibizione pubblica, perché si offra come qualcosa di “descrivibile-spiegabile-comprensibile” evitando di sollevare incertezze sulla nostra appartenenza alla stessa comunità morale (Fele, 2002, p.55). Siamo riconosciuti, conseguentemente, come soggetti di genere – come maschi o femmine – rispetto a cornici interpretative legate a circostanze immediate, a situazioni concrete che richiedono performance specifiche sottoposte ad un continuo monitoraggio e ad una costante valutazione da parte degli altri. In particolare, intendere il genere e, nel nostro caso, la maschilità come realizzazione (accomplishment) significa considerare un tipo di pratica che viene messa in atto a seconda di condizionamenti specifici e al variare del livello di potere dipendenti, tra l’altro, dalle appartenenze di classe sociale, dalla razza, dall’orientamento sessuale, dall’età dei soggetti in questione, etc. Questa prospettiva ha altre e importanti implicazioni perché se il genere è una realizzazione contestuale, se è valutato dunque come una proprietà emergente e conseguita per mezzo di una condotta situata, l’attenzione teorica si sposta da questioni interne o che concernono la natura dell’individuo, alle diverse arene interazionali e istituzionali della vita sociale (West y Zimmerman, 1987, p.126).

Alcune interpretazioni teoriche della violenza maschile contro le donne: violenza come rafforzamento dei legami omosociali maschili

Il rafforzamento dei legami omosociali e la proiezione di un’immagine dominante maschili che il soggetto utilizza per avere un effetto sulla vittima, sui propri pari e persino su se stesso sono processi che ritroviamo anche nelle analisi relative alla violenza contro le donne. Le principali analisi e ricerche sulla socializzazione di genere e, in particolare, sulla costruzione delle maschilità nello sviluppo provano che – a partire dalla produzione della maschilità tra i preadolescenti, un linguaggio violento, il controllo delle emozioni e la presentazione del Sé aggressiva sono tra gli elementi utilizzati per la costruzione dei legami omosociali (Flood, 2008). I giovani maschi costruiscono, infatti, legami intimi intra-genere strutturati e supportati da condotte omofobiche, misogine e violente. Solitamente le dimensioni performative delle maschilità sono reiterate in termini omosociali, nel senso che le pratiche della maschilità sono messe in atto alla presenza di altri maschi e garantite e supportate da questa presenza. I legami omosociali hanno una notevole influenza sulle relazioni sessuali e sulla la costruzione della maschilità tra i preadolescenti e gli adolescenti e si basano su una serie di assunti: a) si rileva come l’amicizia tra maschi sia prioritaria rispetto alle relazioni maschio-femmina; b) al contrario, l’amicizia platonica con le femmine viene considerata una pratica rischiosa perché considerata come «femminilizzante»; c) l’attività sessuale diventa la pratica principale per assumere uno status maschile competente; d) bisogna condividere storie (etero)sessuali e raccontare se stessi e le proprie esperienze in termini sessuali anche iperbolici (questa fase nello sviluppo della sessualità maschile fondata sull’«esagerazione» e l’amplificazione della propria sessualità caratterizza i maschi per gran parte del loro vissuto). Il linguaggio stigmatizzante e le pratiche violente a danno di tutti gli altri maschi non normativi (perché percepiti come gay, perché disabili, di altra etnia o di classe sociale differente) possono essere considerati strumentali al processo di rafforzamento dei legami (omo)sociali maschili, alla celebrazione del potere maschile e all’esibizione pubblica della maschilità eterosessuale. Nel momento in cui un ragazzo, per esempio, mette in atto condotte violente sta acquisendo una maggiore reputazione maschile e partecipa ad una messinscena in cui le vittime giocano insieme il ruolo di target dell’azione aggressiva e di strumento drammaturgico (Goffman, 1969) di amplificazione della maschilità (egemone) dell’aggressore. Gran parte delle pratiche di distanziazione violenta da comportamenti e condotte che sono percepite come «poco maschili» si apprendono e si performano durante la socializzazione di genere. Ai giovani maschi sono rivolte pressioni sociali a conformarsi al ruolo di genere maschile «normativo» e a utilizzare pratiche (tra cui le condotte violente) quale mezzo per «fare» e «significare» la maschilità (normativa) (Schrock y Schwalbe, 2009): la vittima serve pertanto a validare anche in termini simbolici lo status di genere e sessuale dei modelli di genere dominanti e in particolare di quello maschile eterosessuale.

In particolare DeKeseredy, illustre sostenitore della corrente criminologica critica del realismo di sinistra, in una serie di contributi scritti con altri ha riletto la teoria dei legami sociali, integrandola con una riflessione di genere (Godenzi et al. 2001) e con una prospettiva che evidenzia il ruolo di supporto che nelle condotte violente viene svolto dal gruppo dei pari; i risultati provano che l’attaccamento ai propri pari (maschi) e le risorse che questi gruppi forniscono, incoraggiano e legittimano le violenze nei confronti delle donne (DeKeseredy, 1990; DeKeseredy y Schwartz, 1993). Questo genere di ricerche ha dimostrato che le trasformazioni in atto che investono le unità familiari sembrano aver intaccato anche le relazioni patriarcali, ragion per cui la violenza domestica può essere intesa anche come uno dei pochi strumenti utilizzabili per ristabilirle i legami maschili “tradizionali” tra pari (DeKeseredy y Schwartz, 2002), considerato soprattutto il valore che riveste per i maschi di classe lavoratrice l’unità domestica come (unico) luogo potenziale di esercizio della loro autorità e la violenza, in particolare, come strumento per affermare la propria maschilità «umiliata» (Alder y Polk, 1996, p.400).

Nei contesti, studiati da questi autori, aree sottoposte soprattutto a forte ristrutturazione economica o a gravi crisi, i maschi disoccupati o senza un lavoro fisso hanno maggior tempo da spendere con i propri pari, spesso consumando alcolici nei pub o in luoghi pubblici, creando legami solidali mentre riflettono sui “tempi duri” che si ritrovano a vivere oppure “rimpiangendo i bei tempi”, ma anche considerando la violenza e gli abusi domestici come modo legittimo per «tenere le proprie donne al loro posto» e per reclamare la loro autorità patriarcale (perduta o minacciata) (DeKeseredy y Schwartz, 2002).  Il gruppo dei pari non serve meramente a giustificare e neutralizzare l’uso di metodi violenti, gli altri uomini possono infatti fungere anche da modello di comportamento (per l’apprendimento vicario), considerato che gran parte di essi stando ai dati offerti da questi studiosi hanno già abusato delle proprie partner (DeKeseredy et al., 2003).

La violenza contro le donne come sfida drammaturgica per l’onore

Nel momento in cui la riflessione teorica criminologica cessa di analizzare la maschilità come tratto (comportamentale o personologico) e, invece, inizia a caratterizzarla come una serie di pratiche collettive, la ricercatrice/il ricercatore possono dedicarsi allo studio delle modalità socio-relazionali attraverso le quali i maschi costruiscono le differenti maschilità, tenendo conto delle pratiche prodotte e mette in atto al fine di apparire membri competenti in contesti sociali, culturali e relazionali specifici.

Bisogna riconoscersi come maschi ed essere riconosciuti tali, bisogna convincere gli altri di essere all’altezza (Goffman 1969, 2009) del proprio ruolo, comprendere il sistema di credibilità concretizzato dalla messa in atto di “configurazioni di pratiche” maschili (Carrigan et al., 1985). Tuttavia individuare pratiche ed elementi costitutivi della maschilità rischia di introdurre discorsi e rappresentazioni essenzializzanti, ragion per cui gli studiosi considerano che “essere maschi” significhi possedere principalmente un self maschile, un sé maschile come effetto drammaturgico (Schrock y Schwalbe, 2009; Goffman, 1969), ossia un sé che viene realizzato attraverso l’interazione contestuale con gli altri e negli intricati rituali e performance che caratterizzano i contesti della vita quotidiana.

Crearsi una reputazione (Emler y Reicher, 2000, p.159) maschile violenta diventa una strategia ed insieme una componente necessaria delle interazioni sociali in contesti specifici: bisogna essere in grado di sapere non solo quali sono i comportamenti appropriati, ma anche essere capaci di fornire e curare un’immagine di noi stessi sempre interpretabile in armonia con i valori in uso e le aspettative comuni, offrendo interpretazioni accettabili del nostro comportamento anche (e soprattutto) nei casi in cui l’apparenza possa venire interpretata in modi che potrebbero danneggiare la reputazione che stiamo costruendo.

La difesa dello status maschile come elemento principale nella costruzione di una reputazione e di un Sé maschili è processo rilevante nello studio delle condotte devianti. Possiamo includere queste tipologie di ricerche all’interno del filone che – rifacendosi a temi classici dell’analisi interazionista simbolica e drammaturgica (Blumer, 2008; Goffman, 1969) –, si occupa delle «contese e le sfide sull’onore» che coinvolgono il carattere morale degli attori e che possiamo definire sinteticamente drammaturgie maschili violente. Tra le prime ricerche, quella ormai datata ma pur sempre valida e attuale di Luckenbill ha considerato gli episodi violenti come forme interazionali, all’interno delle quali la violenza assume un carattere processuale e che prevede delle sfide o competizioni sulla reputazione e il carattere morale dei soggetti coinvolti (Luckenbill 1977, 1984). La violenza diventa, pertanto, uno strumento per risolvere dispute tali all’interno delle quali uno o più soggetti cercano di «salvare la faccia» (Goffman, 1971, p.14 ss.; Goffman, 1969, p.22 ss.) a danno di altri. I lavori di Luckenbill (1977, 1984) hanno preso in esame, in particolare, le condotte omicide come forma transazionale e situata: questo tipo di analisi – che prende le mosse dall’analisi goffmaniana dei rituali correttivi degli ordini espressivi (Goffman, 1971, pp.23-27) – guarda agli atti criminali come corsi di azioni co-determinate dalle contro-mosse altrui e dalle interpretazioni fornite rispetto alla situazione finalizzate a ristabilire e salvare la faccia, situazioni in cui le maschilità dell’aggressore, del target e dei testimoni svolgono un ruolo decisivo (Luckenbill, 1977, 1984).

Kenneth Polk, già autore di studi che si sono occupati prevalentemente di omicidi elaborando la definizione di “scenari” della violenza maschile (Polk, 1994), ha evidenziato che la maggior parte della violenza maschile che produce un alto tasso di vittimizzazione tra uomini avviene all’interno di quanto definisce «sfide per l’onore» (honor contests), quelle competizioni violente che avvengono tipicamente nelle risse da bar (Polk, 1999). Polk, anch’egli ammiratore della riflessione goffmaniana della riparazione dell’ordine espressivo sacrale della “faccia”, elenca una serie di elementi che caratterizza le sfide per l’onore che ha studiato ed evidenzia tratti concernenti i partecipanti, i contesti in cui hanno luogo gli scontri e le dinamiche interazionali.  Le “sfide per l’onore” ricorrono in situazioni strutturate che vedono la presenza soprattutto di giovani maschi delle classi operaie che manifestano una maggiore propensione rispetto a soggetti di classe media a declinare in termini “violenti” le proprie interazioni. Gli altri maschi – dinanzi ai quali avvengono gli attacchi all’onore –  assolvono ad un compito all’interno della drammatizzazione della violenza perché essi divengono testimone dell’affronto e, al contempo, destinatario della rivendicazione dell’onore leso per via della funzione di valutazione – e talora anche di amplificazione – che svolge nei processi di costruzione delle maschilità; il gruppo dei pari legittimerà quel tipo di maschilità plausibile, quella configurazione maschile che sa mettere in atto in modo convincente i copioni “maschili” previsti in quel contesto specifico.

Conclusioni

Le brevi riflessioni indicate nostrano la necessità di non considerare la maschilità come una caratteristica trascendentale o essenzialista, come se potesse essere compresa come una qualità essenziale dei corpi e della psiche dei maschi in possesso di una “capacità esplicativa” di per sé (Schrock y Schwalbe, 2009, p.289). La ricerca deve pertanto orientarsi verso l’analisi della devianza e del crimine come azioni maschilizzanti ossia come condotte con effetto maschilizzante per il sé, analizzando il lavoro identitario che gli stessi “maschi” mettono in atto e il repertorio che agiscono per rivendicare la propria appartenenza al genere dominante, per mantenere la realtà sociale del gruppo e la fedeltà al gruppo medesimo, per mantenerne i privilegi; interrogandosi su quale tipo di ordine morale (della maschilità e della femminilità) costruiscano e quali gerarchie di desiderabilità dei generi e dei corpi, rispetto a come sono controllati e sono supportati gli atti di ciascuno e, ancora, come si crea e si condivide quel materiale simbolico che permette loro di mettere in atto condotte maschili “competenti”, “convincenti”, “legittime”.

Bibliografia

  1. ALDER C.M., POLK K. (1996), Masculinity and child homicide, in «British Journal of Criminology», 36 (3), 396-411.

  1. BLUMER H. (2008), Interazionismo simbolico [1969], trad. it. e cura di R. Rauty, Bologna, Il Mulino.

  1. CARRIGAN T., CONNELL R., LEE J. (1985), Toward a new sociology of masculinity, in «Theory and Society», 14 (5), 551–604.

  1. COLLIER R. (1998), Masculinities, crime and criminology. Men, heterosexuality and the criminal(ised) other, London-Thousand Oaks-New Delhi, Sage.

  1. Connell R., Maschilità. Identità e trasformazioni del maschio occidentale, cit., pp. 67-72.

  1. CONNELL R., MESSERSCHMIDT J.W. (2005), Hegemonic Masculinity. Rethinking the Concept, in «Gender & Society», 19, (6), 829-859.

  1. CONNELL R. (2006), Questioni di genere, Bologna, Il Mulino.

  1. DEKESEREDY W.S., ALVI S., SCHWARTZ M.D., TOMASZEWSKI E.A. (2003), Under Siege. Poverty and crime in public housing community, Lanham, MD, Lexington Books.

  1. DEKESEREDY W.S., DONNERMEYER J.F., SCHWARTZ M.D., TUNNELL K.D., HALL M. (2007), Thinking critically about rural gender relations: toward a rural masculinity crisis/male peer support model of separation/divorce sexual assault, in «Critical criminology», 15, 295-311.

  1. DEKESEREDY W.S. (1990), Male support and women abuse: the current state of the knowledge, in «Sociological Focus», 23, 129-139.

  1. DEKESEREDY W.S., SCHWARTZ M.D. (1993), Male peer support and women abuse: an expansion of DeKeseredy’s model, in «Sociological Spectrum», 13, 393-413.

  1. DEKESEREDY W.S., SCHWARTZ M.D. (2002), Theorizing public housing woman abuse as a function of economic exclusion and male peer support, in «Women’s health and Urban Life», 1, 26-45.

  1. EMLER N., REICHER S. (2000), Adolescenti e devianza. La gestione collettiva della reputazione, Bologna, Il Mulino.

  1. FLOOD M. (2008), Men, Sex and Homosociality. How Bonds Between Men Shape Their Sexual Relations with Women, in «Men and Masculinities», 10 (3) 339-358.

  1. FELE G. (2002), Etnometodologia. Introduzione allo studio delle attività ordinarie, Roma, Carocci.

  1. GODENZI A., DEKESEREDY W.S., SCHWARTZ M.D. (2001), Toward a gendered social bond/male peer support theory of university woman abuse, in «Critical criminology», 10, 1-16.

  1. GOFFMAN E. (1969), La vita quotidiana come rappresentazione [1959], Bologna, Il Mulino.

  1. GOFFMAN E. (1971), Il rituale dell’interazione, Bologna, Il Mulino.

  1. GOFFMAN E. (2009), Il rapporto tra i sessi [1977], Roma, Armando.

  1. HALL S. (2002), Daubing the drudges of fury: men, violence and the piety of the “hegemonic masculinity” thesis, in «Theoretical Criminology», 6 (1), 35-61.

  1. JEFFERSON T. (2001), Subordinating Hegemonic Masculinity, in «Theoretical Criminology », 6 (1), 63-68.

  1. LUCKENBILL D.F. (1977), Criminal homicide as a situated transaction, in «Social Problems», 25, 176-186.

  1. LUCKENBILL D.F. (1984), Murder and assault, in R. Meier (a cura di), Major forms of crime, Beverly Hills, Ca., Sage, 19-45.

  1. MESSERSCHMIDT J. W. (1997), Crime as structured action: gender, race, class and crime in the making, London-Los Angeles, Sage.

  1. MESSERSCHMIDT J.W. (2004), Flesh & Blood. Adolescent gender diversity and violence, Lanham, Rowman & Littlefield.

  1. MESSERSCHMIDT J.W. (2018), Hegemonic masculinity. Formulation, reformulation, and amplification, Lanham, Rowman & Littlefield.

  1. MESSERSCHMIDT J.W. (1993), Masculinities and crime. Critique and reconceptualization of theory, Lanham, Rowman & Littlefield.

  1. MESSERSCHMIDT J.W. (2016), Masculinities in the making. From the local to the global, Lahnam-Boulder-New York-London, Roman & Littlefield, 9-35.

  1. MESSERSCHMIDT J.W. (2000), Nine Lives: Adolescent Masculinities, the Body, and Violence, Boulder, Westview Press.

  1. MESSERSCHMIDT J.W., TOMSEN S. 2012, Masculinities, in W.S. DEKESEREDY, M. DRAGIEWICZ, Routledge handbook of critical criminology, London-New York.

  1. POLK K. (1999), Males and Honor Contest Violence, in «Homicide Studies», 3 (1), 6–29.

  1. POLK K. (2003), Masculinities, femininities, and homicide: competing explanations for male violence, in M.D. SCHARTZ e S.E. HATTY (a cura di), Controversies in critical criminology, Cincinnati, OH, Anderson Publishing Co., 133-145.

  1. POLK K. (1994), Men who kill. Scenarios of masculine violence, Melbourne, Cambridge University Press, 1994. Campus, New York, New York University Press, 1990.

  1. SCHROCK D., SCHWALBE M. (2009), Men, Masculinity, and Manhood Acts, in «Annual Review of Sociology», 35, 277-295.

  1. WEST C., ZIMMERMAN D.H. (1987), Doing gender, in «Gender & Society», 1 (2), 125-151.